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Empatia e consapevolezza

Se non conosciamo noi stessi, non possiamo conoscere i sentimenti di un’altra persona. Se impariamo a osservare i nostri sentimenti dall’interno e dall’esterno, impareremo a riconoscerli e a vedere anche quelli degli altri e sapremo fare attenzione a dire o fare cose che potrebbero far soffrire ulteriormente l’altra persona. Per quanto riguarda queste conoscenze l’essere andati a scuola o all’università anche per dieci anni può non aver insegnato niente.
Avere la consapevolezza di se stessi, dei propri sentimenti, porta alla capacità di mettersi al posto dell’altra persona: questa capacità viene chiamata dagli psicologi “empatia”. I cinesi traducono questo termine con “entrare dentro l’altro”. Siamo in grado di vedere la presenza dell’altro e possiamo entrare dentro di lui per sentire che sentimenti prova. Questo è ciò che si intende con “guardare in profondità”, possiamo metterci nella carne, nello scheletro e nella mente dell’altro, possiamo sentire come sente.
Se sono presenti la sofferenza e la tristezza, entrando in quella persona possiamo sentire il suo dolore, i suoi sentimenti, e così riusciamo a comprenderla e non faremo o diremo niente che possa ferirla ulteriormente.
Ma se non siamo in grado di fare questo per noi stessi, se non vediamo le formazioni mentali nostre, come possiamo vedere quelle di un altro?
E’ la consapevolezza di se stessi che porta all’empatia, quindi la prima cosa da fare è essere consapevoli di noi stessi e la seconda è praticare la consapevolezza empatica degli altri, solo così potremo produrre la vera gentilezza amorevole e la vera compassione.
Questo è uno degli scopi dell’educazione. Dovremmo praticare correttamente e stabilmente  per portare queste cose all’esterno e offrirle alla società. Applicando queste intuizioni al campo dell’educazione, il mondo può avere meno sofferenza.

Brano tratto da: Discorsi ai bambini e al bambino interiore, Thich Nhat Hanh, Ubaldini Editore

 


Immagine di Chiarart

La malattia di cui oggi soffre gran parte dell’umanità è inafferrabile, non definibile. Tutti si sentono più o meno tristi, sfruttati, depressi, ma non hanno un obbiettivo contro cui riversare la propria rabbia o a cui rivolgere la propria speranza. Un tempo il potere da cui uno si sentiva oppresso aveva sedi, simboli, e la rivolta si dirigeva contro quelli.

Ma oggi? Dov’è il centro del potere che immiserisce le nostre vite?

Bisogna forse accettare una volta per tutte che quel centro è dentro di noi e che solo una grande rivoluzione interiore può cambiare le cose, visto che tutte le rivoluzioni fatte fuori non han cambiato granché. “T. Terzani. Un altro giro di giostra”

2 Commenti

  • emiliano

    bello

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